SST Records

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Ricordo ancora in maniera lucida il giorno in cui comprai il mio primo disco targato SST. Forse perché si tratta di uno dei miei gruppi preferiti, di un disco che, ancora oggi, mi rimane nel cuore. Ero in primo liceo classico ed era un pomeriggio di pioggia. Accantonati gli esercizi di fisica e le nozioni di filosofia bighellonavo con un amico per le strade della mia città, Ventimiglia. Come un miraggio, da poche settimane, aveva aperto in centro un piccolo negozio, West Coast Records, che smazzava alla grande roba indipendente. Fu amore a prima vista con quel marroncino merda sciolta della copertina. “New Day Rising”,  Hüsker Dü. Una band che avevo solo annusato sulla carta al piombo di qualche rivista lercia, o di qualche compendio sul punk comprato nelle librerie economiche di San Remo. Ora ce l’avevo in mano e anche se costava 30 carte e passa doveva essere mio, a costo di tirare la cinghia e fare qualche cresta in più sulle pizze. Da questo ricordo abbozzato nascono queste righe: mettere in fila alcune canzoni, rigorosamente targata SST, che mi sono rimaste impresse, mi hanno segnato, che magari ascolto ora e prima non ascoltavo. Che amavo e poi ho dimenticato. Le prime che mi sovvengono.

Corporate rock still sucks.

Hüsker Dü –  I Apologize

Furore, rabbia, poesia, melodia. Da lacrime, oggi come ieri.

Black Flag – Annihilate this Week

Scelta impopolare, ma rimane un pezzone. Storti, pesanti Flag secondo periodo.

Descendents – Clean Sheets

Bombissima per un gruppo obbligatorio per tutti. Melodie strappaorecchi.

Minutemen -History Lesson Part II

Non è solo musica. Pugnalata al cuore.

Dinosaur Jr – Freak Scene

L’ultima di Barlow al basso. Period.

Bad Brains – I Against I

Non i Brains del periodo furia. Ma ignorarli sarebbe un delitto.

St Vitus – Born too late

Copertina quantomeno esteticamente coraggiosa. Pezzo stupendo.

Screaming Trees – Flower Web

Disco del cuore dei Trees. Pezzo enorme.

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Валентина Владимировна Терешкова

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Valentina Vladimirovna Tereškova era ancora viva. Doveva avere più di settantanni ormai. Allungò il collo verso il giornale che aveva adocchiato appena alzatosi dal letto. Tra parentesi, nella didascalia della foto leggeva “(75 anni) “. Già compiuti dunque. Era andata così quella mattina; dopo una nottata abbastanza anonima si era svegliato con la voglia di leggere qualcosa, di riempire con del contenuto quella mancanza notturna. E così mentre ancora si toglieva dagli occhi quelle fastidiose cacchette che irrimediabilmente ci si ritrova addosso la mattina, aveva lanciato uno sguardo alla poltrona dove, spiegazzato, faceva bella mostra il quotidiano del giorno prima. Era alla disperata ricerca di qualche storia e la foto, a colori, in taglio basso, di quella famosa astronauta russa era lì pronta a farsi leggere. A dire il vero, sapeva che si trattava di una astronauta russa solo perché aveva letto il titolo e perché la foto, inequivocabile, la ritraeva vestita con una tuta spaziale. Di russi nello spazio fin da piccolo ne ricordava solo due: il mirabile compagno Gagarin e la cagnetta Laika. Ora si aggiungeva al ristretto gruppo questa astronauta, che 45 anni prima, era stata la prima donna nello spazio. Acciderbolina, niente male. Teneva il giornale con una mano, la destra, mentre la sinistra stuzzicava e grattava la gamba sinistra e il polpaccio. Fu in quei momenti che si ricordò, complice l’articolo che stava divorando, di una importante diversificazione linguistica. Amava queste cose, ne era attratto e attribuiva loro grande importanza: il valore delle parole, delle sfumature. Ebbene, quella mattina lo aveva dimenticato. Dell’epopea sovietica nello spazio sicuramente avrebbe dovuto ricordare l’importante tipicità del termine “cosmonauta”. Una differenziazione netta rispetto all’ “astronauta” a stelle e strisce. Bando alla ciance, ora la compagna Tereškova sarebbe stata la cosmonauta Tereškova. Oppure la compagna cosmonauta Tereškova. Era deciso, stabilito e introiettato nella sua testa che cercava di carburare. Più continuava a leggere, più si rendeva conto di aver perso una storia fantastica, in tutti quegli anni. La compagna cosmonauta Tereškova sarà stata anche la prima ad andare nello spazio, ma che fatica. A giudicare da quella rievocazione, redatta in maniera impeccabile e avvincente da un noto giornalista, erano stati giorni drammatici lassù tra le stelle. Una navicella minuscola, settanta ore consecutive legata al sedile con tuta e casco addosso, nausea continua, dolori alla gamba, pruriti impossibili da arginare. Cosa non aveva fatto per la patria, quella avventurosa compagna. L’assenza di gravità ad un certo punto l’aveva fatta anche rimettere, rendendo il resto della sua esperienza tanto più simile a quella di un pudding rancido che scivola, impietoso, nella sua ingombrante tuta da cosmonauta, come nel più avvincente dei luna park.

 

Leggere quell’articolo gli aveva fatto ritornare un briciolo di serenità. Era già tanto in quelle condizioni pietose, con una giornata così dura davanti. Ma almeno un piccolo sentore di fame gli era sbucato in quello stomaco chiuso e così si era alzato dalla sedia dove aveva preso posto, qualche minuto prima, per finire l’articolo e sciabattando (le ciabatte di plastica faceva un rumore davvero sgradevole e parevano attaccarsi a ventosa al pavimento ad ogni passo) aveva raggiunto il frigo. Aveva preso uno yogurt ai lamponi, buono e particolarmente liquido. La boccetta, di vetro, era quasi piena e aveva una etichetta molto fine, come se fosse disegnata ad acquarello. La aprì e si insaporì le labbra prima di versare una buona metà del contenuto in una tazza azzurra. Che poi, posato lo yogurt in frigo, riempì di fiocchi di avena. Finito, infilò le posate e la tazza nel lavandino. Riempiendola di acqua. In bagno, nonostante tutto, si vide ancora nel fiore della sua gioventù. Il capello in disordine poteva essere migliorato, ma la faccia da schiaffi, baciata dal sole cattivo del giorno prima ne esaltava gli zigomi, il viso affilato, gli occhi profondi. Il naso era rosso, come le guanciotte. Intorno alle palpebre invece era chiaro, gli occhiali lo avevano protetto e quel gioco di contrasto chiaro-scuro, gli piaceva molto. Si sciacquò il viso e decise di non farsi la doccia. L’avrebbe fatta dopo. Quei capelli e quei baffi avevano proprio bisogno di una sistemata, almeno per quello che avrebbe dovuto fare in quella giornata. Gli sembrava il minimo presentarsi in maniera decente. Si vestì in un batter di ciglia e sentì risuonare alle sue spalle la porta di legno massello.

 

Mangiava con buona lena quei gradini di pietra lavica che lo conducevano giù verso i vicoli. Sentiva il tipico puzzo di sporcizia e umidità che caratterizzava le case del vicinato. Ormai ci si stava abituando anche se, ne conveniva, faceva davvero schifo. Solo quando, trotterellando, scendeva gli ultimi scalini, dalla finestra che dava in un ballatoio interno sentiva l’odore, netto e deciso, del basilico che la signora Graziella coltivava nel retro della sua casa al primo piano. Sapeva di ripagarlo delle forche caudine dei piani superiori. Era quasi al portone che notò la casella della posta. Era piena. Si ripromise di svuotarla al suo rientro, anche se, ne era consapevole, l’avrebbe lasciata così com’era con molta probabilità.

 

«Eccolo che arriva, Marcelo» disse Giobatta rivolto al suo assistente, che stretto in un camice bianco si mise sull’attenti pronto a ricevere ordini dal titolare.

Si era avvicinato alla porta e l’aveva aperta mentre Aldo si avvicinava al negozio: «Buongiorno, dottore, ben ritrovato, aspettavamo lei per iniziare questa giornata».

«Caro Giobatta, oggi mi ci vuole proprio una bella rasatina» disse Aldo infilandosi le dita trai capelli. «Lei cosa mi racconta? Poco movimento questo sabato?».

Giobatta si girò verso Marcelo e con un gesto rapido lo fece subito sparire nel retro, a prendere il necessario per mettere il cliente a proprio agio e preparare un lavoro di buona fattura: «Cosa vuole dottore, io qui sto per chiudere bottega, spero solo che questo ragazzo impari da me, magari lo lascio a lui questo negozietto, ma la concorrenza è alta qui in zona, lo sa».

Aldo sorrise e si mise a sedere sulla poltroncina mentre Marcelo gli copriva le vesti per il taglio, con una mantellina acetata di colore grigio. «Aggiustami i capelli, che siano ben corti, e poi questi baffi. Che siano sottili ed eleganti» disse Aldo, chiudendo gli occhi.

 

I due lavoravano alacremente, uno con le forbici, l’altro pronto a portare al capo ogni cosa che gli sarebbe potuta servire. Aldo ora navigava di fantasia. Si alzò in volo da quel locale, piccolo e profumato del centro storico. E ritornò ai luoghi della sua infanzia, col nonno che lo portava a “raparsi” sotto casa. Era talmente piccolo che per tagliargli i capelli mettevano un cuscino alto e duro sulla sedia, altrimenti non sarebbero riusciti a lavorare. E ne usciva, sempre, rasato a zero. Pronto alla naja, diceva il nonno canzonandolo. Sentì che Giobatta lavorava di cesello sui suoi baffi e si rese conto di aver finito quella piacevole tortura. Il barbiere si girò e disse: «Marcelo vai a prendere l’alcol e l’accendino». Il giovane ecuadoriano tornò lesto. Giobatta prese un rasoio a serramanico, lo aprì delicatamente e poi intrise la lama di alcol. Marcelo aveva acceso il fuoco e glielo passò: l’alcol bruciava e fu un attimo che Aldo non sentì quel calore di lama sul collo, a rifinire, come si faceva un tempo, le sfumature dei capelli. Aveva fatto proprio un bel lavoro. Aldo lasciò anche la mancia e promise ai due che sarebbe tornato più frequentemente. Ad ogni passo, ad ogni vetrina controllava la chioma e i baffi. Erano davvero ben acconciati. Il baffo, soprattutto, fine e scuro, lo rendeva fiero. E gli pareva che lungo il tragitto verso il fioraio tutti lo guardassero con occhi diversi.

 

Entrò nel negozio. Era scuro, non grosso, e appena entravi notavi due cose. Il suono, netto e distinto, delle campanelle poste sulla porta, per annunciare l’ingresso e il profumo, freschissimo, delle piante, dei fiori. Era una umidità fantastica che ti apriva le narici, ti umettava le mucose. Spazzava via ogni residuo di polvere. Si guardò per un attimo intorno, finché non apparve una ragazza. Minuta, portava occhiali con montatura di tartaruga e aveva un fascino silenzioso ma innegabile. Ogni volta che parlava, era un cliente abituale, mostrava dei denti notevoli. Come di mandorla. E nonostante la situazione poco felice, gli faceva piacere poter rivederla. Ormai era certo che fosse la figlia del titolare. Lei lo riconobbe subito, dato che solo poche ore prima era andato a fare l’ordinazione. Con l’accordo di tornare la mattina dopo per scegliere il nastro e la scritta. Lei, affabile, gli chiese di seguirlo e lo portò nel retro dove mostrò la composizione. Lui fece solo che annuire e ritornati nel negozio, indicò il nastro viola.
Diede un colpo di tosse.
La ragazza si toccò con l’indice il ponticello degli occhiali e disse: «E per la scritta?».
Aldo non esitò a tirare fuori un biglietto e a porlo alla ragazza. Mentre glielo porgeva e questa lo prendeva le loro dita si sfiorarono. Lei arrossì subito.

Aldo la guardò un attimo, ne studiò i capelli, da maschiaccio, rasati quasi ai lati, corti. Ne esaltavano il viso e quelle orecchie piccole e perfette.

Sorrise e disse: «Ora vado».

«Arrivederci» bofonchiò lei mentre la porta, aprendosi e richiudendosi, suonava di mille campanellini.

 

 

Era ormai sulle scale di casa. La cassetta, zeppa, gli ricordò il proposito di qualche ora prima. Non ne aveva però la forza. Rimase lì, ingolfata e pronta a sputare qualsiasi altro volantino pubblicitario o bolletta che chiunque si fosse azzardato di infilarci. Decise di fare di corsa gli scalini. Arrivò in cima col fiatone. Che non si era placato nemmeno quando, entrato, era già in cucina a studiare la situazione delle sue stoviglie. Pessima. Oltre gli avanzi della colazione, era pieno di bicchieri da lavare. Quasi solo bicchieri, ma ognuno con una chiazza differente. Giallina, gialla scura, rosata, marrone. Era una cosa imputabile solo a se stesso ma che gli faceva davvero dannare l’anima. Quello e i batuffoli di polvere sotto le sedie. Capiva le aggregazioni di acari ovunque, ma non si capacitava di come riuscissero sempre ad accumularsi sotto quelle gambe di sedia. Lavò i bicchieri, le stoviglie della colazione e pulì le sedie dalla polvere. Aprì la finestra per dare aria alle stanze e accarezzò quella piantina, piccola e ancora malsana, che gli avevano regalato. Riprendeva vigore ma era ancora convalescente, anche se di profumo, meschina, ne spandeva già molto. Diede da bere alle sue radici vogliose. E poi si ritirò in camera. Aveva portato con sé il giornale. Rileggeva la storia della compagna cosmonauta. Quando tornò in patria, dopo quella scampagnata, si ritrovò a dover fare i conti con un lago. Non atterrava, non ammarava. Doveva ritornare dallo spazio e sotto ai suoi piedi aveva un lago. Una novità, quantomeno. Era stato un trauma, e si era presa una testata enorme, con conseguente naso viola per il colpo.

Andò allo specchio e guardò il suo di naso. Rubizzo, ma non viola come quello della compagna cosmonauta. Prese in mano un disco in vinile. Era un doppio. La copertina sfoggiava una foto di una statua bronzea, immortalata in primo piano. Il viso fiero e fermo, teneva davanti a se, con due mani, una spada rivolta verso il basso. Mise su la terza traccia e si andò a rimettere sulla poltrona, il giornale ancora tra le mani:

Suffocate!
In our shroud of regrets
Where wars of idealism
Are fought – and lost!
To the bitter angels of our nature
Where our shadow falls in tears
Time turns voices into stone
Where our shadow falls in tears
Time turns voices into stone

Era quasi ora. Non aveva toccato cibo. Gli bastava la colazione mattutina. La doccia sì, quella l’aveva fatta. Si era messo la camicia chiara. Per la giacca era troppo caldo. La cravatta si, sottile e nera, ben stretta al collo. Era sceso in strada e appena svoltato l’angolo l’aveva visto, il carro funebre, e si era ricordato che cosa significava quel giorno. Infilò la mano in tasca, aveva ritagliato il giornale: compagna cosmonauta, eroe dell’Unione Sovietica. Valentina Vladimirovna Tereškova era ancora viva. Almeno lei.

 

 

 

Era quasi ora. Non aveva toccato cibo. Gli bastava la colazione mattutina. La doccia sì, quella l’aveva fatta. Si era messo la camicia chiara. Per la giacca era troppo caldo. La cravatta si, sottile e nera, ben stretta al collo. Era sceso in strada e appena svoltato l’angolo l’aveva visto, il carro funebre, e si era ricordato che cosa significava quel giorno. Infilò la mano in tasca, aveva ritagliato il giornale: compagna cosmonauta, eroe dell’Unione Sovietica. Valentina Vladimirovna Tereškova era ancora viva. Almeno lei.

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Io ero su un treno, vent’anni fa.

Genova. Oggi, come venti anni fa. Ora ci vivo, ci lavoro. Nel maggio 1992, ero in quinta elementare, ci ero venuto con la mia classe. Maestra, compagni tra i dieci e gli undici anni, familiari. Era l’anno delle Colombiadi e lasciare la provincia per il capoluogo era sembrata l’occasione giusta, per una gita che sarebbe stata unica, si pensava. E che, tragicamente, divento nell’immaginario collettivo di quei ragazzini, di quei genitori, un qualcosa di molto più pesante rispetto al cinquecentenario di Cristoforo Colombo. La giornata era spaziale, io, come sempre, senza genitori al seguito. Affidato alle cure amorevoli della madre di un amico. Mi rimangono molti particolari delle Colombiadi, tanta luce, un porto Antico che si apriva davanti a me. Per me era una bella novità. Ma sono particolari che voglio tralasciare, mi capirete. E voglio tornare su quel treno. Un Genova-Ventimiglia dei più sgangherati e lenti. Penso davvero di quelli che fermano ad ogni stazione. Il mio primo ricordo riguarda una suora. Rotonda, incuffiata, sudaticcia. Ne ricordo ancora gli occhiali e i baffetti, sottili e appena accennati. Chiari. Era di Foggia e non so in che maniera si era arrivati a parlare di calcio. Leggeva la passione nei nostri occhi di ragazzetti. “Sta andando bene il Foggia” oppure “E’ andato bene anche quest’anno”, non ricordo con precisione. Noi, tra tutti, si annuiva. Era il Foggia dei miracoli, quello di Zeman. Poi uno scarto. Netto, immediato, fortissimo al ricordo. Probabilmente la notizia arrivava da qualcuno che era salito in qualche piccola stazione. L’aveva appena sentita e la diffondeva. Il passaparola non risparmiò le nostre carni di undicenni. Una bomba, hanno ucciso Falcone. Nemmeno i più scafati e saputelli forse erano ben consapevoli di chi fosse. Della morte della moglie, della scorta. Ricordo solo un gran vociare, una mestizia di fondo. E la corsa, dei genitori, a tutelarci, con la paura che quella tragedia, anche se non completamente percepita, potesse sconvolgerci in maniera pesante. E passarono davvero poche settimane. Mi ricordo che correvo su, in montagna. Ero coi nonni, isolato. In pochi avevano la televisione e forse si prendeva anche male. Tanto bastò, un “baffo”, un’antenna precaria. Era nelle parole della signora “Rosy” una calabrese che aveva sposato il figlio della signora Tania. Uscì di corsa dalla loro casetta, nel giardinetto pavimentato con pietra grezza. “Hanno ammazzato anche l’altro”. Io ero l’unico sul cortile. Me lo ricordo ancora adesso.

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Corrono ginocchia sbucciate

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Corrono ginocchia sbucciate. Nascosti dietro l’angolo, spuntano solo frammenti di unghie, nere, insudiciate dalla fatica e dal gioco. E’ la luce del neon a riportarmeli in testa, una intermittenza che fa riaffiorare queste scaglie di passato. Mentre fuori, incurante, è una cascata vera e propria quell’acqua che entra, esce, suona in quelle impalcature montate da non so quanti mesi. Me ne aveva parlato il vicino, un pomeriggio. Pare sia gente che non riceve stipendio da mesi. Operai, gente così. E che, giustamente, non lo smonta tutto quell’ambaradan. E’ già tanto, penso io mentre il vicino si toglie, curioso, una caccola dal naso, che questi non siano tutti i giorni lì sopra con cucchiali e padelle a suonare come una orchestrina per avere quello che gli spetta.

Così mi passa un po’ in secondo piano il fatto che faccia questo schifo di tempo a maggio. In fondo davanti a schifi peggiori anche le velleità di uscire, girare, prendere un po’ d’aria cedono il passo. Almeno questo penso io. E in questi giorni, quando sono uscito non che abbia visto cose granché interessanti, in quei piccoli sprazzi di sole. Forse la cosa più bella rimane quella piccola pianta di basilico. Me l’ha regalata Vittoria, e profuma da far paura. Ma in fondo per guardarla e sentirne l’odore basta uscire sul poggiolo. Ho trovato, non so dove forse in una vecchia cantina, una sedia mignon. Proprio piccola, come se fosse stata fatta per un bimbo. E così l’ho trovata proprio perfetta per il mio basilico. Sapete, il poggiolo è piccolo, niente di speciale, e una sedia grossa sarebbe un vero casino farcela stare. Quella invece è perfetta e anche se il basilico lascia un po’ di terriccio sugli intrecci della seggiolina, ci sta proprio bene. Mi ricordo ancora quando Vittoria me la regalò: disse che era una piantina che gli aveva portato un suo fratello di Pra’ e che quindi si trattava proprio di quel famoso basilico. A me pareva una balla, o quantomeno una carineria per arricchire il già grazioso omaggio. E il fratello totalmente inventato. Ma ho sempre agito come se fosse vera. Trattando quella piccola piantina con tutti i riguardi del caso. A maggior ragione dal giorno in cui Vittoria ci ha lasciati. E detta così non fa nemmeno effetto, ma vi assicuro che il trauma lo vivo tuttora che son passati dei mesi. Non capita spesso di scoprire il cadavere di una persona, soprattutto la mattina presto. Si pensa che qualcuno prima di te ci passi in quel dannato vicolo sotto casa. E non che sia tu, inerme e inconsapevole corridore dell’alba, a trovare davanti al portone il corpo di una settantenne spalmato sull’asfalto. Prima o poi indagherò, forse c’era uno sciopero degli spazzini. Ma nessuno lo aveva visto e me lo sono gustato io, per primo, mentre mi sistemavo i calzettoni. E poi sì che mi è dispiaciuto, sì che volevo dare l’allarme, ma lo stomaco non può reggere sempre. E lasciarci l’anima in quel vicolo, con le mani su quel freddo pietrisco, mi è sembrato uno sgarbo mica da ridere. Ma non son riuscito a trattenermi.

Ora posso dirmi di essermi messo in pari.  Vado sempre a trovarla al cimitere. E al funerale ero uno dei pochi. Fratelli manco l’ombra (che vi avevo detto?) e niente funzione religiosa. Il suicidio dei poveracci è rigidamente punito dalla Chiesa. Quando la stavano calando giù nella terra, davanti al mutismo generale, ho provato a dire io due parole. Mi sono presentato come il vicino di casa. E ho speso due o tre minuti per dare un po’ di tono a quella routine funeraria. Una vecchia con l’apparecchio acustico annuiva. Uno dei becchini, invece,  non la smetteva di tirare su con il naso e si strusciava quei baffi pieni di muco. Mi faceva venire da vomitare.

E ora che il padrone di casa intende vendere la casa di Vittoria, penso che mi farò avanti per comprarla. Domattina, pioggia permettendo, gli andrò a parlare. Rimane uno dei miei sogni da arredatore di interni mancato, quello di buttare giù i muri di due appartamenti vicini e ridisegnare magicamente gli spazi. Robe che forse, e dico forse, avevo solo sognato durante gli anni di Educazione tecnica alle medie.

Se scosto le tendine però, c’è il rischio che non riesca a dormire. E che invece di comprare la casa di Vittoria, questo merda di appartamento lo lasci una volta per tutte. Sono in due. Li vedo ogni tanto, di notte, quando non riesco a dormire. Non saprei dire in che giorni, o quante volte, o con che scadenze. Non saprei nemmeno dire chi siano, in effetti. Anche se è buio, ho paura a tirare troppo le tende. So solo che li vedo, sagome nere, con un cappello in testa. Camminano sul tetto, nel palazzo di fronte a me. Si siedono, con le gambe penzoloni. E tirano fuori una canna da pesca ciascuno. Armeggiano pure con queste canne. Come se avessero tutto il necessaire. E sono lì nella notte a pescare in mezzo al cielo. Che diavolo faranno? A me, un po’ almeno, mettono paura.

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Una sera, una notte

Veniva su dal Borgo, dove l’avevano lasciato. Per quegli ultimi metri non valeva la pena che l’accompagnassero. Sarebbe stato gentile nei suoi confronti, ma per lui, che sapeva che giro scomodo avrebbero dovuto fare per ritornare indietro, sarebbe stata una scortesia, che non si sentiva di regalar loro. Che già, di cuore, avevano fatto parecchi chilometri in più per riportarlo a casa. Aveva il borsello in spalla e ci teneva su la mano destra, più per equilibrio che per diffidenza, mentre le gambe macinavano su quella salita. Un falsopiano che durò pochi minuti. Dove la via vecchia tagliava la strada principale girò subito a destra. Era ripido anche lì, un vecchio vicolo che conduceva alla città alta, stretto e angusto. Rifiatò un secondo, tempo di ricaricare i polmoni e sgranchire le gambe. Ancora pochi metri e sarebbe arrivato. Vedeva già la porta. Una volta davanti strofinò con forza le scarpe sulle pietre della strada e diede due forti colpi con le nocche della mano, chiusa a pugno.

 

Arrivò lesta Renata ad aprire. Era pallida come un cencio e teneva in mano un piccolo lume. Fioco ma abbastanza prorompente in quella umida notte. L’abbracciò senza badare a bruciarsi. Ma non riuscì a proferire parola. Si tolse il cappotto e cercò, a tastoni, la poltrona. Una volta riposto guardò ancora la vecchia. La luce gli disegnava un chiaroscuro sul viso. Gli occhiali, vecchi per stile e usurati per l’uso, le rabbonivano quella faccia, così segnata non solo dagli anni, ma dalle circostanze.

-Ha detto che vuole vederti- disse la vecchia.

-Lasciami solo con lei- disse Mario.

Renata gli passò il lume e aprì la porta che era lì, a due passi, dopodichè la richiuse, lentamente. Già lo vedeva che si avvicinava a quel corpo sofferente, rischiarato da una pallida candela che rendeva ancora più solenne quell’agonia. Aveva serrato così piano il legno che già lo vedeva, inginocchiato, a tenere il lume in una mano e le dita nodose nell’altra. Non si fece pregare e richiuse tutto, andandosi a sedere. Si gettò sul divano. In attesa. Passarano almeno quaranta minuti dopodiché il ragazzo uscì, richiudendo la porta.

-Potete chiamare il curato, brava donna, io ho preso due giorni dal lavoro, non tornerò a Genova che mercoledì.

-Lo manderò a chiamare al più presto, già è passato ieri, e poi ci sarebbe da pensare a… – disse, ma fu subito interrotta.

-Non preoccupatevi, penserò a tutto io, ora esco a fare un giro alla marina- la redarguì infilandosi il cappotto e tuffandosi nella notte.

 

Uscì anche la vecchia diretta, pochi metri sopra, alla casa dell’amica Francesca, che avrebbe chiamato il prete. Lui aveva la preso la direzione opposta, attraversando lo stradone centrale e prendendo la discesa che conduce lì, al mare, a due passi dalle onde. Ne sentiva le narici pregne, la spuma, l’odore. Quasi guizzava dentro quell’aria pungente che gli solcava il viso. A lui che aveva nascosto le mani nelle tasche per non vedersele distrutte dal freddo, screpolate e tagliate da quelle lame invisibili. Appena giunto in spiaggia scostò alcuni sassi col piede, muovendo da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Ne prese alcune in mano e si avvicinò al mare. Si chinò sulle ginocchia, gomito sinistro in avanti, pietra in mano e braccio destro all’indietro. Per caricare il lancio. Le pietre partivano e sparivano nelle onde, le potevi vagamente vedere saltare, se la luce del lampione giocava a tuo favore. Quando ebbe terminato ne prese una, piatta, lunga. Si levò scarpe e calze. Fece un risvolto ai calzoni che arrivassero sotto il ginocchio ed entrò in acqua. Bagnò la pietra. Poi uscì. Era gelato, e subito si rimproverò di non averlo fatto senza entrare in mare. Prese le scarpe, i calzini, e ritornò sui suoi passi. A piedi nudi. Per fortuna appena arrivato il curato non si era ancora visto. Ebbe modo di asciugarsi e aveva appena terminato quando bussarono alla porta.

Era don Giacomo. Lo riconobbe subito. Entrò e subito gli diede un abbraccio. Lo condusse in camera, rimanendo appollaiato sullo stipite. Quando ebbe officiato il suo compito uscì. Non era pratico di queste ritualità, ma chiamare nuovamente il curato gli era sembrata la cosa da fare.

Entro lui questa volta. Aveva cavato di tasca la pietra bagnata in acqua. Si avvicinò, la guardò, le prese una mano e la aprì. Posata la pietra, la richiuse. Uscì e si avvicino a Renata e al curato. Bisbigliando che quella doveva rimanere lì e che anche l’indomani, quando avrebbe organizzato tutto, lo avrebbe ribadito a chi di dovere. Salutarono Renata. Lui accompagnò il curato, lo rassicurò che l’indomani mattina sarebbe passato a trovarlo per organizzare il rito e la sepoltura. Scese verso il Borgo, e poi oltre verso la marina. Sulla passerella, deserta, diede le spalle alle montagne e si mise a guardare il fiume che percorreva il suo letto per confluire nel mare.

 

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